Artigiani Veri. La bottega di Dionigi

Finalmente una bottega vera! Con tanto di trucioli, segature, antiche macchine e legno legno legno. Soprattutto massello, che è pieno, denso, vivo.

Dionigi Locci ha 51 anni ed è falegname da quando ne aveva 14. O meglio, nell’adolescenza era apprendista. Il suo maestro è stato Giuseppe Spaccapaniccia, bravo artigiano da cui ha tratto i segreti del mestiere.

Dionigi Locci, falegname

Quando lo incontro a Monte Rinaldo, Dionigi sta terminando alcune porte in castagno. Gliele chiedono, insieme alle finestre, ai portoni, alle persiane, clienti venuti da fuori ad abitare nei piccoli paesi dell’entroterra. Americani, inglesi, israeliani. Lo hanno conosciuto, gli è piaciuto, gli danno commesse. Comunque, il lavoro non manca. I suoi clienti sono privati cittadini. Arrivano da Porto Sant’Elpidio come da San Benedetto del Tronto. Dionigi non s’è pubblicizzato. È conosciuto grazie al passa-parola.

Locci lavora in proprio dal 1982. Una data che ricorda bene: Mondiali di Calcio e il tifo del Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Di pallone, il nostro falegname se ne intente: ha giocato a lungo nel ruolo di centro-campista con una decina di squadre locali; quando ha tempo pratica il calcetto con gli amici del CSI.

I giochi di Diego

La sua qualità maggiore? «La pazienza», dice. E poi, quell’attrazione sin da ragazzo per i lavori manuali e la creatività, con molta dose di umiltà: «Nel mio lavoro non si finisce mai di imparare».

La soddisfazione maggiore? «Quella di vedere soddisfatto il cliente». Sì, va bene, insisto, ma l’opera che più ti ha soddisfatto? «Ho costruito una cassettiera dell’Ottocento, guardando una foto fornitami dall’acquirente».

Come ti definisci, basta solo falegname? «Metterei anche: risolutore di problemi. Perché ogni volta ce ne sta uno».

Giriamo per la bottega che piccola non è. Mi segnala le attrezzature, partendo dalla macchina più vecchia: una pialla a spessore degli anni ’50 con ingranaggi multipli; c’è poi quella a filo, e ci sono la sega circolare, il toupì che è una sorta di albero girevole che si alza da un piano, la sega a nastro, la carteggiatrice, la bucatrice a catena, la pressa, oltre agli strumenti minuti: martello colle pennelli e via battendo.

Uno degli attrezzi più vecchi

Il legno migliore? «Senz’altro il rovere, che però è pesante da lavorare».

Alle pareti sono appoggiati altri pezzi per interni di casa.

Gli chiedo se ha figli. Ha Diego, di sei anni. Farà il falegname? «Se vorrà, perché no». Intanto, la creatività del padre inizia a crescere nel figlio che ha completato alcune auto in miniatura tra cui un camion. Dionigi gli prepara gli scheletri, Diego li assembla e mette chiodi. Su una macchinina ha apposto anche la sua firma. «Meglio che giochi con il legno e che realizzi giocattoli invece di guardare la tv», aggiunge il padre.

È dura? «Non c’è male. – risponde – Al mattino attacco alle otto sino alle 13, al pomeriggio sono qui alle 14 sino alle… 21».

Sarebbe una domanda inutile, perché mi ha accolto sorridendo e continua ad avere un volto disteso. Gliela faccio ugualmente: Soddisfatto? «Sì, senza ripensamenti. Il legno è qualcosa di vivo». Non credo che abbia letto lo psicoterapeuta Claudio Risé. Eppure esprime lo stesso concetto: il legno è vivo anche quando non è più albero.

Stretta di mano vigorosa. E ancora scuse per i trucioli e la segatura che non ha avuto tempo di portar via. Invece è la prima cosa che mi ha colpito.

di Adolfo Leoni, Il Resto del Carlino, Giovedì, 4 luglio 2019

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