Il dramma di Maria

Forse è la Madonna del Tintoretto
l’immagine più vera di donna
che cade tra le braccia delle donne pie?
O forse è quella del Lorenzo Lotto:
la donna che non regge alla vista dello scempio?
Che non regge all’agonia di suo figlio?
Entrambe sono le più vere.
Perché vera era lei: Maria.
Donna totalmente umana!
Totalmente!

La Crocefissione, di Lorenzo Lotto

Maria era Madre, ed era Figlia.
Ma madre, prima di ogni altra cosa.
Umanamente, corporalmente,
fisicamente Madre.
Lo aveva tenuto in grembo,
sentito scalciare,
avvertito spostarsi nella pancia.
Lo aveva partorito,
allattato, svezzato, cresciuto.
Curato, quando malato;
sgridato, quando disubbidiente,
perché disubbidiente lo era stato
come tutti i bambini.
L’aveva visto giocare con i compagni,
e poi, pian piano, l’aveva visto farsi grande,
farsi uomo,
diventare bello.
Perché era bello!
Era forte!
Era… dolce!
Lei… orgogliosa di Lui!
Lui, sempre vicino a suo padre,
a tirare la pialla,
a mettere chiodi,
a incrociare – terribile presagio! –
le assi di legno.
Legno della vita.
Legno della morte.

La Crocefissione, del Tintoretto

Legno di nuovo della vita.
Giuseppe era taciturno,
Lui più loquace.
A volte bastava solo guardarsi per capire.
La mercede? Quella giusta.
Il compenso? Quello giusto.
Il lavoro? L’onore di costruire una cosa ben fatta.
Una vita di trent’anni.
Quotidiana.
Domestica.
Familiare.
Normale.
Tanto impegno, poco svago.
La bottega che sapeva di trucioli e polvere.
Qualche volta all’osteria,
altre nei campi.
Poi, per tre anni,
all’improvviso, tutto diverso.

Tutto diverso!
Tutto per gli altri.
Come a dimenticare la famiglia,
la sua: quella terrena.
Come dimenticare la famiglia:
quella terrena,
per una famiglia più grande.
Quella per cui era nato.
Per cui era venuto al mondo.
E gli ultimi giorni…
Quelli dopo le palme sventolate a Gerusalemme,
dopo gli applausi, le musiche, gli osanna;
quelli… quando l’asino andava spinto tra la calca.
Quando, ogni sera, si tornava a Betania,
bisognoso di amore, di compagnia,
di amici veri.
Uomo tra uomini.
Gli ultimi giorni…

Il Crocefisso, del Bramante

La svolta, il capovolgimento, i tradimenti.
Festa prima.
Supplizio, poi!
Il tempo del supplizio,
dei peccati assunti su di sé.
Suo figlio preda degli altri,
della nostra e loro cattiveria.
Di quell’impasto angelico e demoniaco.
Che dorme dentro di ognuno
e che si scuote, fulmineo,
e inatteso prorompe,
e, allora: divide.
E allora, uccide.
Quel demoniaco che sale,
che erompe,
che sfigura bocche e volti.
Che trasforma.
E lui: suo figlio, in balia degli ebrei, ora,
e dei soldati romani,
e del popolaccio.
Quel popolaccio prima acclamante, osannante,
poi carico di accuse.
«Barabba, Barabba».
L’urlo indistinto che sale dalla pancia della folla,
che scende dalla ragione  offuscata e senza cuore,
che digrada dalla mente senza anima.
Senza… senza nulla.
E il Nulla che inghiotte.
Libero il ribelle!
Libero lo zelota!
A morte, l’uomo dei miracoli!
I Miracoli…
quelli che tutti avevano visto.
E a cui avevano creduto,
per poi dimenticare, l’attimo successivo.
Eppure miracoli sul serio:
storpi raddrizzati,
lebbrosi guariti.
Muti che parlavano,
sordi che udivano.
Ma loro non avevano saputo credere.

Un attimo e poi via.
Non avevano saputo vedere.

Un attimo e poi via.
Non avevano saputo vedere oltre.
Vedere l’Uomo non Uomo.
Sì, qualcuno sì:
giusto quei pochi…
Perché lo sguardo degli altri,
di tutti gli altri si muoveva altrove,
i loro sguardi, i loro desideri,
le loro voglie erano altrove.
Incapaci di cogliere
normalità e straordinarietà.
O, meglio, capaci solo di indirizzarle a se stessi,
orientarle e, alla fine,
capaci solo di possederle.
Incapaci di cogliere
la straordinarietà del figlio di Dio!
Di cogliere, di seguire un’altra strada.
Un’altra strada: vertiginoso!
Ed ora lo sconcio del pretorio,
lo scherno dei soldati,
Pilato che vorrebbe…

che avrebbe voluto…
bastava ascoltare…

bastava avesse ascoltato sua moglie…
E la fatica sovrumana lungo la salita.
Quel braccio di croce.
Il Patibulum.
Quell’asse di legno tanto diverso dal legno della bottega.
Albero della morte,
Albero della vita…

Albero della morte, ora.
Le spalle ingobbite e piagate.
Le cadute terribili.
Il Cireneo costretto… che lo guarda,
indispettito prima,
mesto e triste, dopo.
Attimi appresso ad attimi,
di un’angoscia mortale,
di uno svuotamento da dentro.
Io mi chiedo: e lei, la madre: Maria,
ha dubitato della promessa?
Lei… ha dubitato della promessa fattale quel giorno?
Ha dubitato dell’annuncio fattole quel giorno dall’angelo?
Io credo di sì.
Credo di sì:
lei ha dubitato.
Magari per un frammento di secondo.
In quell’istante sotto la croce
penso di sì.
Bestemmia la mia?
In quell’istante sotto la croce era diverso.
Tutto era buio.
Tutto sembrava finito.
Il cielo era tornato in cielo.
La terra era tornata alla terra.
Le tenebre prendevano il sopravvento.
Il vuoto ghermiva il mondo e le sue cose.
Prima, non era stato così.
Non era stato così!
Prima vedeva il suo ventre crescere,
crescere pur senza aver incontrato uomo.
Cresceva, il suo ventre.
Quell’apparizione glielo aveva preannunciato.
Glielo aveva fatto capire.
Difficile da pensarsi,
difficile da concepirsi,
difficile il raccapezzarsi.
Annuncio sconvolgente.
Ma quella figura era rassicurante.
Poteva credergli,
sì: poteva credergli
perché già sentiva il ventre riempirsi.
Ma ora?
Ma ora sul Golgota suo figlio era lì,
nell’ignominia del martirio peggiore.
Lo avevano flagellato.
Di più: lo avevano macellato.
La carne gli si staccava dalle ossa.
Gli artigli metallici pentravano il fondo:
strappavano, deturpavano, scarnificavano.
Il flagrum spezzava le ossa.
E il sangue era a fiotti,
dovunque,
dal collo, dalle braccia,
dalle orecchie, dalle gambe,
dal volto, dagli occhi.
E Lui, in silenzio.
Qualche gemito, appena,
qualche lamento,
ma niente di più
La corona di spine non era stata appoggiata.
La corona di spine era stata spinta,
a fondo, dentro,
nel cranio.
Quasi a sfondarlo,
quasi un tutt’uno con il capo.
I chiodi che Lui conosceva,
i chiodi che Lui aveva usato
gli spaccarono i polsi,
gli frantumarono i piedi.
Lo issarono più in alto di tutti
che era una maschera di sangue.
Un filo di voce:
«Da bere!».
Per pietà.
Gli issarono aceto in una spugna.
Ma non per sfregio.
L’aceto dissetava i legionari.
E qualcuno, lì sotto,
tra i soldati di guardia,
vedendo quel tragico volto,
vedendo sua madre,
stava mutando il cuore.
Lo cambiava, ed era già miracolo.
Un grido, e poi, l’ultimo rantolo…
Non ci fu bisogno di spezzargli le gambe.
Era morto!
Cadde il silenzio.
cadde l’oscurità.
La terra tremò.
Maria svenne.
La portarono via.
Il corpo pesava.
Pesava quasi quanto il corpo del suo crocefisso,
di suo figlio staccato dalle assi.
Tutto s’era concluso!
Concluso nella tomba nuova.
Nel sepolcro bianco.
Dinanzi ad un grumo disperato di chi gli voleva bene.
Quel che restava era solo l’immagine di prima,
qualche ricordo buono.
Solo quelli…
Era stato un sogno?
Ora era un incubo.
L’immane tragedia aveva tutto sconvolto.
Tre giorni,
furono tre giorni.
Poi, un’altra donna,
poi, altre donne,
Poi lei… che non dubita più.
Che vede.
Lo rivede.
È colmo di luce,
è nella luce.
Il sole che si alza,
la vita che torna a pulsare.
Un macigno rimosso.
La tomba vuota.
Lenzuoli a terra.
Gesù era morto ed ora è vivo.
A morire è stata la morte…
È stata la morte a morire.

La morte che muore.

La Resurrezione, del Mantegna

Sconfitta.
Lei non dubita più!
Ha visto, ancora una volta.
Dov’è suo figlio se non in cielo.
La promessa mantenuta.
Ancora una volta.
Ave Maria!

di Adolfo Leoni






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