Se dico: «Gigliuccio», a cosa pensereste? Ho fatto la domanda in giro e la riposta quasi univoca è stata: «A un piccolo giglio». Vero e non vero insieme. Perché il Gigliuccio, oltre ad essere, giustamente, l’immagine di un piccolo giglio come quello fiorentino, è un ricamo particolare tipico delle nostre contrade, probabilmente, anzi sicuramente, legato alla nobile famiglia fermana dei Gigliucci e al corredo di una delle sue discendenti. Me lo racconta con dovizia di particolari la signora Maria Rita Faleri, commercialista di professione, presidente dell’associazione Il Filo che conta con sede a Fermo e agganci in tutta Italia. La signora Faleri, oltre ad essere esperta di bilanci e denunce di redditi, lavora all’uncinetto e conosce, insieme alle sue amiche, tutte le tecniche del ricamo. Le ha imparate da bambina guardando le mani abili di sua nonna Luigina e di sua madre Firmina detta Lina. Sin da piccola, ha visto il ricamo per intaglio, quello per sfilatura, il giornino. Ha visto le sue parenti lavorare d’ago e di telaio.

Ma, torniamo al Gigliuccio. Questo tipo di «sfilatura» non esisteva. Si inizia a parlarne nel 1915 quando la giornalista Lucia Petrali Castaldi, divenuta direttrice della rivista Mani di Fata, ancora oggi in edicola, viene chiamata nelle Marche. Deve valutare un corredo. Oggi si sorriderebbe. A quel tempo i corredi avevano un buon valore economico ed entravano negli assi delle divisioni familiari. Dunque, la Castaldi arriva e resta sorpresa: quel tipo di ricamo, che mette insieme il punto quadro, l’orlo a giorno e diverse altre «legature», non lo aveva mai visto prima, non esisteva in Italia. È una vera e propria scoperta artistica e artigianale, è un modo di ricamare esistente solo nel sud Marche, e forse solo nel Fermano. Come dire: una tipicità! E non l’unica. Perché, anni dopo, la signora Faleri scopre, ma questo purtroppo solo in foto e in alcuni, pochi, articoli di giornale, l’esistenza di un altro ricamo: l’Ars Dorica, di cui parla in un libro. Un ricamo che prese forma nel manicomio di Ancona ai tempi in cui era direttore il prof. Modena, poi allontanato in quanto ebreo: siamo negli anni ’30 dello scorso secolo e le perfide leggi razziali fecero strage di intelligenze. Il lavoro di ricamo da parte dei pazienti negli ospedali psichiatrici era considerata una terapia.

Ma perché Ars Dorica? Perché, racconta sempre la presidente Faleri, agli inizi del ‘900 il Ministero dell’Istruzione caldeggiava, all’interno delle ore di Economia domestica, il ricamo legato agli aspetti architettonici e artistici dei territorio. Così, la tecnica era simile dappertutto, ma i disegni erano diversi. Quasi un genius loci dell’uncinetto.
La nostra presidente ha imparato anni fa il ricamo del Gigliuccio dalla signora Derna, un’anziana e vispa signora di Grottammare.
L’Associazione Il Filo che conta è nata a gennaio del 2003. Il suo obiettivo è quello di «scoprire e ricreare antichi e vecchi ricami mantenendo viva nel tempo la storia e la tradizione dei lavori al femminile, come un filo conduttore che lega passato e presente e unisce tante appassionate del ricamo in generale e del ricamo a fili contati in particolare». Settanta le persone associate, con una sede a Fermo in Largo della Ricostruzione aperta tutti i giovedì pomeriggio, e una consapevolezza di fondo: riappropriarsi e godere del bello.
Adolfo Leoni, Il Resto del Carlino, Venerdì 10 aprile 2020
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