Prendersi cura e curare. Il bisogno di nuovi medici di “famiglia”. Di un nuovo atteggiamento

Se esiste un “mantra” ripetuto all’infinito nei drammatici mesi che stiamo vivendo questo è “Medicina del Territorio”. Come se recitarlo continuamente voglia dire già realizzarlo, metterlo in atto. Ma cos’è la medicina del territorio e come farla? Lo chiedo ad un “medico di famiglia” (a lui non piace “medico di base”). Tolmino Rossi, classe 1952, oltre 40 anni di professione, in pensione da qualche tempo. La prima risposta spiazza. Uno penserebbe all’organizzazione, alle strumentazioni, alle indagini, alle specializzazioni. Invece no! Rossi risponde che «la prima cura è l’ascolto, prendersi cura della persona prima di curarla». È il rapporto, la conoscenza, l’apertura. Una posizione umana prima che scientifica. Senza togliere nulla, ovviamente, alla seconda. Sintetizzando: coscienza e scienza, insieme. È quanto ha sottolineato recentemente ai laureandi e giovani laureati in medicina, facendo loro da tutor. Bisogna riproporlo, allora, il medico di famiglia, rilanciarlo, valorizzarlo. Non è serie B. Senza dimenticare però l’organizzazione. Anzi, una nuova organizzazione. Tolmino Rossi può dirlo.

Il dr Tolmino Rossi nel suo ambulatorio

Molti anni addietro lanciò, insieme ad alcuni colleghi montegiorgesi, l’idea di una sorta di country hospital dove il gruppo di medici di famiglia si sarebbe messo insieme per dare continuità e disponibilità ai cittadini, facendo fronte comune alla burocrazia e restituendo tempo alle visite domiciliari. Il progetto inviato agli organi competenti non ebbe risposta. Diversi anni dopo la Regione trasformò l’ospedale civile Diotallevi in ospedale di comunità. Ma non è la stessa cosa. L’idea della micro équipe è andata comunque avanti. A Piane di Montegiorgio nacque UNIMEDICA: una decina di medici di famiglia, convenzionati, che garantiva e garantisce presenza continuativa. Un esempio da seguire. Anche perché, spiega Rossi, «avendo personale di segreteria, il medico viene sgravato dai compiti burocratici, dalle prenotazioni all’organizzazione del lavoro, favorendo invece le visite ai malati nelle proprie abitazioni. Avendo a disposizione un infermiere, il medico affida a lui il compito delle medicazioni…». È quella che lui chiama la «medicina di gruppo, che gestisce la quotidianità». Un altro aspetto: fornire ai medici di famiglia attrezzature sanitarie capaci di effettuare, ad esempio, ecografie ed elettrocardiogramma. C’è poi la telemedicina, che è importante. «Certo – ammette Tolmino Rossi – un’operazione di tal genere presuppone da parte delle Regioni/Stato più soldi in bilancio. Ma si tratterebbe di investimenti e non di spese a perdere». Quegli investimenti adeguati che, invece, sono venuti meno. Un importante medico lombardo, già docente universitario, guardando alla situazione sanitaria italiana, ha scritto che «la nostra sanità è sotto-finanziata non solo rispetto alla Germania ma anche rispetto alla media europea: 2500 euro pro-capite contro i 2900 circa…». Rossi segnala altri aspetti da risolvere: la mancanza di tempo da parte dei medici di famiglia che corrono ogni giorno di qua e di là, l’impossibilità di scambiarsi esperienze, la pesantezza del lavoro che porterebbe i giovani a scegliere specializzazioni meno faticose. Gli ambulatori di medicina di gruppo risolverebbero una buona parte dei problemi. Infine, Rossi invita le università – non lo dice apertamente, ma lo si evince dal suo discorso – a non tendere solo ad allevare medici tout court ma uomini che facciano della professione medica una «missione». Sembra un concetto antiquato. Ma forse è l’unica risposta. Diceva Giuseppe Verdi: «Il futuro ha un cuore antico».

Adolfo Leoni, mercoledì 30 dicembre 2020

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