“L’acqua che canta tra i sassi”. L’ultimo libro di poesie di Adriano Mecozzi

Ogni giorno tra cartelle esattoriali, bilanci, Imu, Tari, modelli 730… La vita del commercialista non è semplice, specie oggi, con la crisi che morde. Mordeva già prima della pandemia in effetti, morde con la pandemia, morderà anche dopo di essa. C’è un rifugio però. Un diversivo, alla latina: “divertere” che significa guardare altro, guardare altrove. È un modo per non essere sopraffatti, per ritrovare energie, per avere uno sguardo diverso anche sui conti. Per tornare a lavorare cambiati e impegnarsi ancora. Adriano Mecozzi lo conosciamo già. Lo ripropongo perché proprio in queste settimane è uscito il suo ultimo libro: “L’acqua che canta tra i sassi”, Albero Niro Editore. È un volumetto di poesie, quanto meno una raccolta di pensieri profondi proposti in versi. Adriano, amandolese di nascita, commercialista di professione, si rinfranca scavando e schiudendo la propria vita interiore. Ci vorrebbero poeti al governo della cosa pubblica, scriveva Davide Rondoni. Il rimedio non sarebbe piaciuto a Platone. Ma oggi è tempo di avere un più di coscienza, un più di anima. E di umiltà. Umiltà come humus: qualcosa che è legato alla terra, all’umore della terra. «Come può uno scoglio arginare il mare. Così cantava il pragmatico poeta. Forse ignorante non è chi d’essere ignorante ignora.

Adriano Mecozzi presenta uno dei suoi libri

Di certo, ignorante è chi d’esser dotto crede. Di certo ignorante è chi dubbio non vede. Così la vanità spedita incede, la sapienza lasciando, nuda, sul marciapiede». È l’intera poesia che s’intitola “Superiorità illusoria”. È il dramma della superbia, dell’egocentrismo, dell’immodestia e della presunzione. Dove «sapienza» è il “sapere” latino: il sapore delle cose. La loro essenza e significato. «Il problema di quelli di oggi – scrive ancora Mecozzi – è che non sanno cosa è la vergogna. Così diceva mio nonno. La persona e il suo errore, chi sbaglia e chi no, l’adulto e il bambino, ciò che si può fare e ciò che è proibito. La vergogna tutto ricompone». È “La Vergogna” il titolo della poesia, ed anche il sostantivo femminile che più non si conosce in un mondo d’assoluto relativismo. Rimpianti di un passato nell’opera di Adriano? No di certo. Si è persone della contemporaneità. Ma difesa di quel naturale della vita che è base dell’umana avventura.

«Hanno fatto la TAC al sorriso ma non hanno provato gioia. Hanno fatto la TAC agli occhi, ma non hanno visto la bellezza. Hanno fatto la TAC al cuore, ma non hanno trovato amore. Hanno fatto la TAC al fiore, ma il referto ha sentenziato il segno che muore». Come dire: nella persona c’è di più, c’è molto di più. C’è quel di più che la scienza e la tecnologia non potranno mai cogliere, è l’impasto di finito ed infinito, che un giorno si completeranno incontrandosi definitivamente. E di quel di più si avverte la “Mancanza”. «Quando non ci sei, di vuoti l’aria è colma, di bolle d’aria l’acqua, acqua che non bagna, che non feconda». Quel di più che spinge, che dà la forza per rimettersi in gioco, verso una meta. «Un graffio nel cielo notturno, un istante nel tempo, un frammento nello spazio, la nostra vita. Ma il cielo, il cielo la nostra presenza ha vissuto, la nostra parola ha ascoltato. Così quel graffio s’è fissato e l’istante eterno è diventato». Il libro si apre con una meditazione introduttiva del poeta Giovanni Zamponi.

Adolfo Leoni, Il Resto del Carlino, Sabato, 2 gennaio 2021

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