Santa Vittoria in Matenano: paese incantato, cresciuto e fortificato su di un cucuzzolo che guarda i Monti Sibillini. Lungo via Roma, che sale al Cappellone, ultima traccia dei monaci farfensi, si staglia il monastero femminile di Santa Caterina. Antichissimo. La scritta gotica su un muro esterno ne stabilisce la data di fondazione: 1200. Lo abitano 12 monache di cui 3 nigeriane. Prima della pandemia, ospitava giovani, famiglie, singoli e quanti volessero ritrovare sé nell’oasi di pace .

Madre Ida la badessa, esile, vispa, abito nero, attende che l’emergenza termini, per nuovi incontri.
L’edificio è un intreccio di locali, corridoi, soppalchi. Un labirinto dove regna l’estremo lindore.
Il portone d’ingresso immette anche in un curatissimo orto-giardino. Le monache coltivano la terra, crescono ortaggi e alberi da frutta, allevano polli e conigli. Dalla lunetta della porta si scorge un albero di cachi. Il colore rallegra il grigiore di questi giorni.
Entrando, nel silenzio s’avverte un’altra dimensione. L’accoglienza benedettina è tratto fondamentale della Regula di san Benedetto: accogliere tutti come fossero Cristo. La giovane monaca che apre ne interpreta bene lo spirito.

Superata la chiesa, si arriva alla foresteria: una decina di camere. «È qui – spiega la Madre – che superato il Covid-19, potranno sostare chi volesse fare un’esperienza, pregando con noi sette volte al giorno, dando una mano nell’orto, vedendoci lavorare studiare riflettere». Ora et lege et labora et noli contristari, non essere triste.

Sorride, la paffutella suor Benedetta che s’ingegna a prelevare dolcetti per gli ospiti. Visitiamo il refettorio. Archi gotici sovrastano una serie di tavoli. Il richiamo medioevale un po’ contrasta con il moderno pavimento. Sino al 2019 vi pranzavano i 100 laureandi, dottorandi, tutor ed insegnanti delle 13 università europee dell’International Student Competition.
Non si potrebbe, ma viene fatta un’eccezione: entriamo nella zona di clausura. Una minuscola e bassa stanza, dalla luce soffusa, è lo spazio della preghiera delle 5,30. Un’altra simile diverrà museo con i vecchi telai a mano, brocche e macine del sale. Le chiamavano Le carceri…
Prima di arrivare alla grande cucina dall’originale camino, uno slargo accoglie il minuscolo bar con macchina da caffè, «per chi non ce la fa a digiunare sino a colazione» spiega ridendo la badessa. San Benedetto conosceva le fragilità umane. Nel refettorio due fratini di fronte, e un altro sul lato corto, un leggio e un diffusore per le musiche di Bach e Beethoven.

Si sale ancora, ed ecco il laboratorio. Le monache sono tutte lì, per il ricamo, uncinetto, tombolo, brevetti per neonati, cuscinetti per le fedi degli sposi.
La biblioteca è ricca di volumi. Non mancano quelli di don Tonino Bello, Carlo Maria Martini, don Luigi Giussani. Le monache editano anche un foglio: Il Solco
Un disegno a china, alla parete, racconta con umorismo l’avventura di due consorelle a Udine.
È ora di tornare. Madre Ida fa strada. Le sorelle salutano calorosamente. Il portone si chiude. Un’altra vita.
Adolfo Leoni, lunedì 24 gennaio 2022
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