Montegiorgio. Una targa e una panchina dedicate ad Agostino Scaloni, grande poeta

Frattuccia, indicano più frecce di color marrone. Frattuccia: una piccola enclave tra la Discesa de li Ferrà e la strada che gira intorno al centro storico di Montegiorgio. Uno spazio chiuso con due accessi di cui uno da un breve e vecchio tunnel.

Un tiglio maschio campeggia frondoso quasi al centro di questo rettangolo delimitato da abitazioni, un tempo anche dalle botteghe degli artigiani. Poco distante, una panchina di color crema, che sembra dipinta. E lo è. Lo è da una cascata di versi. Una poesia! Una poesia d’amore per un luogo, per un paese, una terra, un mondo piccolo.

Su quella panchina di granito lo immaginiamo seduto e sornione. Agostino Scaloni non c’è ma è come se ci fosse. Perché quelle sue parole, quel suo componimento rendono ancora vivo l’uomo. Anzi, il poeta.

Non dite, per favore, non scrivete, non catalogatelo come: poeta dialettale. No! Agostino Scaloni è stato un grande poeta, di statura nazionale, che ha scritto in vernacolo. È diverso. Tanti odierni poeti dialettali indulgono alla battuta grassa, al doppio senso spesso sessuale, alla provocazione per la risata prosaica. Scaloni no.

Lui ha usato le parole della lingua locale perché più espressive, più capaci di colorare un sentimento, di dischiudere uno stato d’animo e scolpire anche una facezia. Poeta grande con una vena nostalgica, malinconica, ma capace di sottili arguzie. Il riso non mancava in quanti lo ascoltavano. Ma era un riso consapevole, diremmo: profondo, sensato.

I suoi versi non emozionano e basta. I suoi versi fanno pensare. A questo servono – e questo contraddistingue – i veri poeti. In un mondo in cui lo spessore è solo la superficie, Scaloni penetrava il cuore e la mente.

Ha lasciato questo mondo nel dicembre del 2016. Ma le sue poesie restano e lo rendono immortale. Ed ora, per lui c’è una panchina e c’è una targa che indica Frattuccia come la sua Frattucccia, a lui dedicata per sempre e a tutti gli effetti. La memoria è la nostra forza!

Immaginiamolo allora seduto lì, all’ombra del tiglio maschio, guardare il verde delle foglie e, più sopra, la sua abitazione. Una casa posta in alto da dove è possibile cogliere lo spettacolo della natura intorno: il Vettore, la Sibilla e tutto il panorama che lui ha descritto con un moto profondo dell’anima. Il chitarrista Enzo Sartori ha musicato alcune sue poesie.

E pensiamolo ancora lì, lui dal fisico possente, abbandonarsi allo schienale, chiudere gli occhi protetti da improbabili occhiali neri, e risentire certi antichi passi: «… tac-tac… tac-tac… tac-tac…e su le recchie ancora me lu rsento quistu rremó de tacchi…». È forse la poesia più conosciuta ed amata: Un par de tacchi vassi. Quelli di una ragazza che lui amò: un amore giovanile, da studenti. Ma pur sempre amore. Una giovane che s’annunciava per l’incedere dei suoi tacchi sul travertino di Ascoli Piceno. Quell’amore ebbe termine. E quando si concluse con l’ultimo incontro, lei arrivò con scarpe senza tacchi…

È cambiata la città, è cambiata la pavimentazione, ma quel tic tac potrebbe risuonare anche sulle pietre di Frattuccia. E lui lo avvertirebbe, anzi, lo avverte da lassù, da quel brano di Paradiso dove sicuramente avrà allestito un originale Montejiorgio cacionà, di cui fu inventore quaggiù, a Montegiorgio, al teatro Alaleona.

La cronaca racconta che sabato 22 giugno, pomeriggio, il Gruppo scenico Montejiorgio cacionà ha riproposto a Frattuccia alcune poesie di Scaloni, musicate dal fisarmonicista eclettico Luigi Azzurro. Il sindaco Michele Ortenzi ha inaugurato la targa e la panchina, parlando di Agostino come dell’uomo capace di dare identità al suo paese. Patrizia Scaloni, la figlia, ha ringraziato tutti, in primo luogo l’amministrazione comunale.

Ma voglio aggiungere a questo pezzo un altro pezzo che scrissi in occasione della morte di Agostino che conoscevo molto bene e a cui ero legato.

«Cala lu sole, na ghirlanda rosa ncorona la Sivilla e lu Vettore, senti na smania doce e furmicosa che, a poco a poco, pija anche lu core. Marche, gghià l’ombra doce de la sera te ncumincia a bbraccià da la cullina, se spanne lenta sta coperta nera, sgaliscia zitta fino alla marina…». La coperta nera che ammantava pian piano le Marche raccontate da Agostino Scaloni in una poesia che è nenia, nostalgia, amore, fuoco di passione, stavolta è scesa sull’autore.

Gustì de Ciriòlu (85 anni) è morto domenica pomeriggio (4 dicembre 2016, ndr), all’ospedale di Fermo dov’era tornato per un aggravarsi della malattia. Una malattia che l’aveva costretto a letto, nella sua vecchia casa di famiglia a Montegiorgio, quella con la scritta Brandimarti (il cognome di sua mamma), lungo la discesa de li Ferra’, sopra Frattuccia. Che ha costretto alla quasi immobilità lui, il gigante, che d’estate si tuffava nelle acque di Pedaso, facendo ondeggiare «lu moscò», per raccogliere cozze e «tilline»; la cui voce baritonale poteva fare a meno del microfono dal palcoscenico del teatro Alaleona; la cui voglia di dare qualcosa al prossimo l’aveva fatto impegnare per anni nel volontariato (Unitalsi, Avis). E proprio del volontariato mi aveva parlato neppure un mese fa. Disteso nel suo lettino, con il sole che gli arrivava subito dopo il primo nascere in Adriatico.

«Il volontariato è importante, recordete. È stata ‘na parte ‘mportante de la vita mia» mi ha detto nel suo mix di italiano e volgare.

Su facebook, il giorno precedente la morte ho letto un post asciutto quanto accorato della figlia Patrizia. Si intuiva la fine imminente. Patrizia concludeva così, parlando a Dio o a chi per Esso: «Voglio tanto sperare che “Ciao!, ci vediamo domani”, sia vero. Per tanto altro tempo ancora». Ma non c’è stato domani, non c’è stato un nuovo ciao. C’è stato un: a Dio o a chi per Esso.

L’ombra nera è arrivata. Agostino la pensava come una donna con la falce o un vento impetuoso. Me lo disse anni fa in un dialogo a Radio Fermo Uno.

Attendeva febbraio. Perché sarebbe stato il cinquantesimo del suo gioiello. Suo e dei suoi amici (Antonio Angelelli, Giovanni Capecci, Sesto Vita): Montejorgio cacionà. Aveva le vecchie locandine appese alla parete. Non era uno spettacolo, quell’evento. Era un modo di vivere. Ci si divertiva, si faceva divertire e si tramandava una cultura.

Agostino è stato un grandissimo poeta, di quelli antichi, profondi, acuti, malinconici, nostalgici. Di quelli che rendono la nostra terra, non una terra di provincia, ma una terra che ha una provincia (o che l’ha avuta).

Mi martella «Un par de tacchi vassi… tac-tac… tac-tac… tac-tac e su le recchie ancora me lu rsento quisto rremò de tacchi. Io li contavo… jeci… venti… cento… vattia lu tempu sopre lu serciatu comme u relogghiu anticu de na torre. Quantu tempu è passatu!». Poesia d’amore, d’adolescenza. Grande poesia, che lui amava molto.

Chiudere un articolo è come mettere la parola fine. Ma non voglio. Non posso.

Caro Gustì, ti lascio allora con gli ultimi versi che dedicasti al tuo amico Ntuni de Tavarrò ad una anno dalla morte. Sono giusti anche per te. Molto giusti.

Parlavi di san Pietro martire, quello delle chiavi, quello che ammette lassù, e scrivevi «Ah. Dije a ss amicu, che quassù se stalu gghià dacenne un gran da fa’, che spetta a loro pe’ poté mbasti lu primu “Paradisu Cacionà”».

Lu primu, con te. E, immagina, quanti spettatori, conosciuti e non!

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